Numero 219 - Novembre 2024

La Cassazione apre la strada alla discrezionalità dei Dirigenti

Fa molto discutere il contenuto della Sentenza della Corte di Cassazione n. 12991/2024 del 13 maggio 2024 che, ribaltando una certezza di diritto consolidata, rischia di affidare al Dirigente Scolastico discrezionalità rispetto alla valutazione dei motivi a supporto della richiesta di permesso retribuito per motivi personali e di famiglia da parte del lavoratore.

 

L’art. 15 co 2 del CCNL 2006/09 recita testualmente: “il dipendente ha diritto a domanda, nell’anno scolastico, a  tre giorni di permesso retribuito per motivi personali o familiari documentati anche mediante auto-certificazione”  e non circoscrive ulteriormente i termini della specificazione rispetto ai motivi, anche perchè comunque, trattandosi di un diritto non possono essere negati. Questo almeno è quanto abbiamo sempre spiegato ai nostri iscritti. Purtroppo invece la Corte di Cassazione, pronunciandosi dunque in 3° grado rispetto ad un ricorso presentato da un insegnante che aveva impugnato un diniego del dirigente, ci smentisce rischiando di condizionare l’atteggiamento dei dirigenti in senso sfavorevole e quindi restrittivo.

In sintesi: un insegnante aveva richiesto un permesso giustificandolo come necessità: “accompagnare la moglie fuori Milano”. Rispettivamente, ciascuno per le proprie competenze, il giudice, la Corte d’Appello e di Cassazione hanno rigettato il ricorso considerando insufficiente la motivazione presentata, dando quindi ragione al Dirigente e aprendo la strada alla possibilità che nella valutazione delle motivazioni debbano essere confrontate le esigenze dell’amministrazione a quelle del lavoratore. Secondo la Corte infatti il diritto: “sia subordinato alla ricorrenza di motivi personali o familiari che il dipendente è tenuto a documentare anche mediante autocertificazione, rifletta l’esigenza che si tratti pur sempre di un motivo idoneo a giustificare l’indisponibilità a rendere la prestazione, il che comporta che quel motivo sia adeguatamente specificato e che il dirigente al quale è rimessa la concessione abbia il potere di valutarne l’opportunità sulla base di un giudizio di bilanciamento delle contrapposte esigenze”. Questa che apparentemente può apparire come una considerazione di buon senso rischia però di offrire il fianco ad abusi di potere in quanto la valutazione che spetta al capo di istituto potrebbe non sempre essere così “oggettiva”, bensì influenzata da questioni legate a simpatie o antipatie personali, discrezionali per l’appunto. Purtroppo nell’espressione virgolettata della risposta della Corte ritroviamo il termine “concessione” che era stato superato dagli ultimi contratti nazionali in funzione di un “diritto”.

Sostanzialmente un ricorso presentato per un caso “limite” ed effettivamente mal motivato da parte del lavoratore, rischia di precipitare tutta la categoria indietro di decenni riaspetto alle conquiste civili.

E’ auspicabile dunque che nel prossimo contratto collettivo nazionale normativo venga definita la materia senza spazio per interpretazioni soggettive e discrezionali e che nel frattempo si richieda all’ARAN un’interpretazione autentica del diritto. Per evitare problemi è opportuno che i colleghi esplicitino sempre motivazioni legate a benessere o salute fisica o psichica propria o di familiari, stress e così via.

Michela Gallina