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“Par condicio” negata ai docenti della scuola dell’infanzia e della primaria.

 

di Lea Tuttolomondo Gilda Padova

 

Le riforme non sempre posseggono una loro coerenza interna. Spesso recano aspetti incongrui, discriminatori, al limite della legalità. La situazione, talvolta, però è resa spesso ancor più grave dall’avallo e dal silenzio di politici e sindacati, che dovrebbero sorvegliare e denunciarne le contraddizioni. 

Nel campo della termodinamica quest’aspetto è stato descritto a proposito del concetto di entropia, che definisce il disordine e il grado d’energia ricavabile da un sistema, allorquando si lasciano degli elementi materiali interagire fra di loro. L’energia che si può ricavare da un sistema è inversamente proporzionale al grado di disordine. Per le leggi della fisica e dell’entropia, il disordine con il passare del tempo non può che aggravarsi e, l’energia ricavabile dal sistema sarà quindi sempre minore. In definitiva la legge dell’entropia crescente è quella che trascina ogni cosa verso la sua morte.

È solo il pensiero, il suo ordine razionale, che può intervenire sul corso evolutivo del disordine e rallentarne il processo, impedirne il collasso.

Con il Decreto sulla formazione iniziale dei docenti, approvato dal Consiglio dei Ministri il 14 ottobre 2005, si è aggiunto un ulteriore tassello al mosaico della riforma della scuola, che ha stabilito nuove regole per l’accesso alla professione docente.

E’ prevista la laurea per tutti i docenti. Sarà l’università a curare la formazione iniziale di tutti gli insegnanti, inclusi quelli dell’infanzia e della scuola primaria, per i quali in passato era sufficiente il diploma. Gli atenei istituiranno corsi di laurea magistrale e corsi accademici di secondo livello. Alla fine del corso di studi, dopo aver discusso la tesi e aver superato un esame di Stato si conseguirà la laurea o il diploma accademico di secondo livello, unitamente all’abilitazione all’insegnamento. Successivamente saranno iscritti in un Albo regionale: sarà predisposta una graduatoria che terrà conto del voto conseguito nell’esame di Stato, dalla quale il Dirigente dell’ufficio scolastico regionale attingerà per assegnare i docenti alle scuole, che stipuleranno dei contratti d’inserimento formativo al lavoro con il Dirigente scolastico. A conclusione dell’anno di applicazione, il docente discuterà una relazione sulle esperienze conseguite con un comitato di valutazione, che formulerà un giudizio e assegnerà un punteggio finale al candidato. In seguito alla valutazione positiva, previa iscrizione all’Albo regionale, l’aspirante docente potrà partecipare a concorsi pubblici che saranno banditi con cadenza triennale.

A fronte di requisiti e regole di reclutamento uguali per tutti gli insegnanti, laurea compresa, nulla è mutato nelle condizioni lavorative degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della primaria, che si trovano a dover prestare un terzo in più dell’orario di servizio rispetto ai colleghi della scuola secondaria e a percepire uno stipendio mensile di circa il 10% in meno. A ciò, si aggiunge anche la beffa, di non vedersi riconosciuto, per un eventuale passaggio di ruolo nelle scuole secondarie, alcun punteggio nelle graduatorie permanenti delle varie classi di concorso in cui si possiede l’abilitazione, per il servizio prestato nella scuola dell’infanzia e della primaria. Gli insegnanti delle materna ed elementari inseriti nelle suddette graduatorie, infatti, pur insegnando ed essendo anche di ruolo, non si vedono riconosciuto attualmente alcun punteggio per il servizio prestato, quasi si trattasse di un altro lavoro, con il risultato di arretrare di posizione rispetto ai colleghi precari che invece prestano servizio nelle secondarie. Per questi insegnanti l’unica soluzione (paradossale) sarebbe lasciare il ruolo e accettare supplenze nella classe di concorso di competenza. Il futuro per chi volesse seguire questa strada sarebbe diventare “precario” di ruolo!

In passato la distinzione fra le due categorie d’insegnanti in maestri e professori, si fondava sul differente titolo di studio in possesso, rispettivamente diploma e laurea, circostanza questa venuta meno da diversi anni, perché i maestri in possesso di laurea adesso sono la maggioranza. Peraltro, da alcuni anni, gli studenti che conseguono il titolo dagli ex istituti magistrali non possono più insegnare nella scuola dell’infanzia o primaria ma devono obbligatoriamente laurearsi in Scienze della formazione primaria. Il titolo di maestro adesso è stato mutato in professore almeno nella corrispondenza inviata dalla Moratti. Tuttavia la sostanza non è cambiata: nonostante l’art. 5 della legge delega, e il succitato decreto di attuazione approvato, stabiliscono per tutti gli insegnanti una formazione universitaria di pari dignità e di uguale durata, l’orario di lavoro, la retribuzione e altre norme continuano a discriminarli illegittimamente, contravvenendo ai dettami della Costituzione, che consente disparità di trattamento solo a fronte di situazioni giuridiche differenti.

Sorge, a questo punto, spontanea la domanda: perché uno studente dovrebbe optare per un corso di laurea che, per certo, lo costringerà a lavorare di più e guadagnare meno rispetto ai colleghi laureati come lui?

 

 

 

 

 

 

 

 
     

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