Numero 204, pag 5 - Luglio 2018

I limiti e le regole strutturano e definiscono l’essere umano e l’identità del sé, i suoi confini e lo delimitano rispetto all’esterno. Questa finitezza fa tramontare la prima percezione illusoria ed ingannevole di onnipotenza infantile ed è un momento importante di crescita ed evoluzione psichica dell’individuo.

Le regole inoltre descrivono dei recinti, dei confini invisibili entro i quali il bambino si può muovere al sicuro. I limiti posti dai genitori, inizialmente agiscono dall’esterno, poi un po’ alla volta vengono interiorizzati e fungono da “genitore interno” (introiettato) quindi guidano il soggetto dal di dentro fino a determinarne l’autoregolazione. Ma se questa fase viene saltata, ai bambini prima e ai ragazzi dopo mancherà un passaggio evolutivo fondamentale.

Quindi è importante che da parte degli adulti ci sia fermezza nella definizione di norme e divieti, perché la fermezza dà sicurezza come sottolinea Massimo Recalcati. In: “Cosa resta del padre”, riprende il concetto Lacaniano di “evaporazione del padre”, inteso nella sua accezione normativa: colui che simbolicamente detiene lo scettro fallico del potere e constata come il ruolo che ha retto per millenni la società ora stia svanendo. Nel passaggio da un sistema di rappresentazione della funzione genitoriale normativa ad una accudente, si è smarrita la capacità di vedere negli ostacoli delle opportunità di crescita, è quanto sostenuto anche da Gustavo Pietropolli Charmet in “Fragile e spavaldo”. La conseguenza di un eccesso di accudimento crea una generazione di “nuovi narcisi”, molto fragili, incapaci di tollerare le frustrazioni, dipendenti dal rispecchiamento che l’ambiente riflette di loro. Sono i “cuccioli d’oro”, spesso figli unici, adorati e vezzeggiati da tutti i familiari, un tempo si sarebbero definiti semplicemente: “viziati”, la cui unicità ne aumenta sproporzionatamente il valore e quindi li rende un capitale da proteggere e salvaguardare a tutti i costi. Per millenni invece l’educazione si era retta sulla convinzione che il bambino fosse un selvaggio da civilizzare, da sottomettere anche attraverso la paura, il dolore, il differimento della gratificazione dei bisogni, il sacrificio; pratiche che portavano gradualmente il soggetto a metabolizzare le esperienze dolorose, a considerarle un aspetto normale dell’esistenza. L’impatto con la frustrazione veniva affrontato senza eccessivi scompensi sul piano della percezione di sé e, anzi, fortificava il carattere.

Nella società “ipermoderna” invece, se l’immagine riflessa dal contesto non incontra le aspettative, la frustrazione che ne deriva è insopportabile e produce reazioni di rifiuto e rabbia intense, quelle che sempre più frequentemente vediamo scatenarsi nei confronti dei docenti, perché l’obiettivo immediato dei fragili figli-narcisi è il successo a tutti i costi: ne hanno bisogno, ma soprattutto sono convinti di averne diritto. Il minimo insuccesso scolastico diventa una ferita narcisistica inaccettabile ed insormontabile, scatenante reazioni di rabbia violente verso chi l’ha procurata.

La scuola ha, tra le sue funzioni istituzionali, anche quella valutativa, è il primo banco di prova in cui il bambino e il ragazzo si misurano e confrontano con gli altri ed è quindi il contesto in cui cade quell’illusione di unicità e straordinarietà che l’educazione familiare ha prodotto.

I genitori talvolta vivono con senso di colpa l’esercizio della loro autorevolezza, come se la stessa togliesse qualcosa al figlio, limitandone la libertà, per cui diventano permissivi e pretenderebbero, purtroppo, che gli insegnanti colludessero con la loro visione delirante ed insana di “cucciolo d’oro”, insana perchè andrebbe a nutrire una fragilità.

E’ qui che si gioca una carta fondamentale per il docente: se i genitori da un lato premono nella convinzione distorta dell’educazione accudente e permissiva, supportati da campagne di politiche scolastiche che puntano a spianare qualsiasi ostacolo e difficoltà, a garantire il successo formativo anche se non meritato, indipendentemente dallo sforzo, dall’impegno e dalle capacità, dall’altro l’insegnante non  deve abdicare al mandato istituzionale bensì pretendere il rispetto delle regole per il bene degli studenti e della collettività, riappropriandosi di quell’autorevolezza che gli è data istituzionalmente. Altrimenti, mutuando il concetto di Recalcati, l’insegnante finisce per somigliare inesorabilmente  ad un “padre castrato” che non è più oggetto né di paura né di ammirazione.                             Michela Gallina