Numero 199, pag 6-7 - Marzo 2017

I docenti universitari hanno puntato l’indice accusatore contro gli ordini di scuola “inferiori”. Si facciano un esame di coscienza: come mai all’università ed in molti concorsi non si chiedono più prove scritte?

 

Scritte a mano, intendo, non con il correttore automatico; e in presenza, non a casa. Potrebbero loro stessi applicare una selezione… oppure, da figli del ’68, rifiutano le bocciature?

Almeno, che non si lamentino!

Prima che sparisca chi ha vissuto ed ha ancora memoria delle ricadute del cosiddetto ’68 nella scuola elementare e nella preparazione degli alunni sulla lingua italiana (accusa recente di alcuni docenti universitari), è bene che ne faccia testimonianza.

Di base, era condannata la “meritocrazia” ma, per essere veri promotori delle novità, erano condannati anche i meriti: il 6 politico delle scuole superiori si tramutava nel 9 politico, per tutti indistintamente. Era una strategia per evitare ogni verifica e ogni valutazione senza essere accusati di omissione nell’obbligo della compilazione delle pagelle.

Bocciature? Da escludere a priori!

Era introdotta in classe l’autogestione settimanale. Ogni lunedì i bambini erano chiamati ad esaminare i libri di testo ed a scegliere letture ed esercizi delle varie materie; sottoscrivevano quindi l’impegno, insieme con la maestra. Dal lunedì al venerdì solo due ore di lezione (soft), le altre due di autogestione. Ogni sabato l’insegnante controllava il rispetto dell’accordo…ma non c’era il tempo, di solito, di evidenziare e di correggere gli errori. Poco male: non c’erano conseguenze. In quegli anni è nata la pedagogia dell’errore, in effetti con qualche ragione (non tutto può essere soltanto negativo, vero?)

Messe al bando le regole tradizionali di chiedere il permesso di alzarsi dal banco, di uscire dall’aula, di parlare, persino l’obbligo di salutare. La scelta dei compagni di banco era assolutamente libera e variabile anche nell’arco della stessa mattinata. La parola “disciplina” era da evitare accuratamente.

Alunni e genitori erano invitati a dare del “tu” agli insegnanti, per evitare l’antipatica gerarchizzazione che avrebbe potuto sottendere.

Tra le “regole” da aborrire, naturalmente, c’erano anche quelle sull’ortografia, la grammatica, la sintassi e, quindi, della logica. Bastava che il ricevente capisse o intuisse il messaggio: la sostanza e non la forma contano!

La matematica non se la cavava meglio, naturalmente: era sbagliato, secondo queste teorie, imparare a memoria le tabelline; il calcolo orale era negletto e, di conseguenza, sono comparse le prime calcolatrici diventate subito di uso comune. La memoria, funzione superiore del nostro cervello, solo ora è riconosciuta utile e siamo invitati a mantenerla in esercizio … per prevenire la demenza senile, l’avrete sentito.

Non si doveva ovviamente studiare alcuna poesia a memoria. La geografia fisica e politica non implicava lo studio delle regioni, delle provincie, delle catene montuose e di tutto il resto. Ecco perché ai tele-quiz i concorrenti spesso rispondono a casaccio, anche se laureati: neppure negli altri ordini di scuola si studiano più queste “nozioni” per non peccare di “nozionismo”.

Nessuna lezione ex-cathedra, ma soltanto ri-costruzione dei saperi dell’umanità … rifacendo il percorso dei nostri avi: bambini quali piccoli scienziati e piccoli storici. La storia cronologica era sostituita da storia monografica: in una terza elementare, ad esempio, avevano da studiare “Il gatto nella storia”. E quelli che ora si chiamano i “nuclei fondanti di ogni disciplina” dovevano – tutti – essere scoperti da bambini come fossero novelli Galilei o Leonardo. Dal documento storico alla storia da costruire. Ma se non c’è un quadro generale in cui inserire il documento, che cosa potevano dedurre, questi bambini?

Era accettata soltanto la carta bianca su cui scrivere: niente righe e, tanto più, niente quadretti o pagine col bordo laterale. Tutte erano costrizioni da evitare. Certamente, in seguito si sono viste le difficoltà per chi aveva problemi di orientamento spaziale, ma ormai il male era fatto e molti ancora perseverano nell’errore.

I dettati, e specialmente quelli ortografici, non avevano senso, visto che non era preteso il rispetto delle regole….se mai venivano fatte conoscere. Ancora nel 1995, ricordo, una professoressa di lettere di un liceo scientifico in cui si svolgevano le prove del concorso magistrale (ero membro della Commissione) si meravigliò: “Davvero? Voi ancora considerate grave un errore di ortografia?!” Considerato che si trattava di selezionare futuri docenti, secondo me, erano tutti gravi gli errori di ortografia!

Rifuggire in ogni modo l’andare a capo riga, ad esempio: la divisione in sillabe può creare problemi.

La grafia poteva essere la più disordinata e, nel caso fosse incomprensibile, si chiamava il bambino a leggerci quello che aveva scritto. Spesso non ci riusciva neppure lui: “Chi non conosce la propria scrittura è un asino per natura”: proverbio da non citare mai.

La grammatica andava buttata al macero: si doveva scrivere come si pensava, senza freni inibitori, si potevano usare forme dialettali e colloquiali (senza la consapevolezza che lo fossero), evitando soprattutto noiosi esercizi nello studio delle parti del discorso, considerando superfluo conoscere tutte le loro flessibilità nei modi e nei tempi: è l’uso che fa la regola. Impensabile far studiare le forme verbali, particolarmente ostiche, e pretendere il riconoscimento della funzione delle singole parole nel testo.

Neppure le letture si sono salvate da questa rivoluzione: via le fiabe, con re, principesse e draghi inesistenti. Meglio quale protagonista un barattolo di latta, aperto e arrugginito, caduto da un bidone delle immondizie

(scritto da Mario Lodi, ricordo)….in cui i piccoli lettori si identificavano forse più facilmente Meglio un bambino che difende il suo amico brigante sardo e che, per solidarietà, lancia sassi contro i Carabinieri che volevano arrestarlo (sempre Mario Lodi). La collana di cui hanno fatto parte questi libriccini – per delibera del Collegio dei Docenti di allora – sono stati messi al bando, accanto ai libri di epoca fascista sfacciatamente inneggianti al regime.

Per fortuna, si salvavano sempre “Le avventure di Pinocchio” (lo dico senza ironia).

Niente canto corale (ricordava troppo gli inni fascisti e il militarismo) e niente agonismo nello sport e nel gioco, messi entrambi a dura prova in quel periodo.

L’abete al posto del presepe, Babbo Natale e Befana brutalmente smascherati. Si voleva la fantasia al potere, ma contemporaneamente si vietava ai bambini, senza rispettarne la naturale propensione.

Già da queste premesse, si comprende che il messaggio agli alunni, in quegli anni, è stato chiaro: è permesso scansare la fatica e l’impegno, non ha senso essere bravi perché ciò non viene riconosciuto, ma anzi risulta fastidioso agli insegnanti ed ai compagni di classe.

Il messaggio agli insegnanti è stato altrettanto chiaro: auto-mettetevi da parte, siete inutili. Il vostro ruolo e il conseguente riconoscimento è stato buttato al macero. Non sperate di recuperali.

Nell’Organizzazione scolastica sono comparsi, poco dopo (1974) gli Organi Collegiali e le famiglie, il personale esterno alla scuola sono diventati sempre più incisivi e determinanti. Difficile è stata ed è ancora la difesa della libertà di insegnamento: si tende a considerare il docente quale passivo esecutore di volontà altrui.

E’ stata dura per i pochi che hanno resistito ed è dura per quelli che ancora resistono, perché non è scontato il seppellimento di queste assurdità e i riflessi del famoso ’68, i suoi cascami, si fanno ancora sentire nella scuola e nella società. Ne siete consapevoli, cari colleghi?

                                Giuliana Bagliani